Trevisan e Bernhard. Una sostituzione.

 

Nessuno dice la verità su Vitaliano Trevisan. Molti, quasi tutti, ci girano intorno. Molti, quasi tutti, nel commentare i libri dello scrittore vicentino, nel corso delle loro recensioni, prima o poi dichiarano che Trevisan si ispira a Thomas Bernhard oppure che Trevisan è fortemente influenzato da Thomas Bernhard oppure che Trevisan si rifà al modello di Thomas Bernhard, e così via. Ma questo è un modo molto grossolano, e dunque errato, di porre la questione.

Anche un neofita sa bene che c’è una bella differenza tra, ad esempio, avere uno stile kafkiano e scrivere come Kafka. Perché, ed è questo il punto, lo stile letterario di Vitaliano Trevisan non è un più o meno approssimativo pastiche bernhardiano: lo stile letterario di Vitaliano Trevisan, e dunque la sua poetica, il suo “gesto artistico”, consiste nel riprodurre fedelmente lo stile di Thomas Bernhard in modo che la copia non sia distinguibile dall’originale.

Bisognava che qualcuno la dicesse prima o poi questa cosa, altrimenti si correva il rischio che l’impresa letteraria di Trevisan, che a molti potrà apparire assurda ma che ha invece i caratteri dell’unicità e della coerenza propri di ogni autentica esperienza artistica, venisse letta come la maniacale reiterazione di chi andando a sbattere contro «Il nipote di Wittgeinstein» in età post-adolescenziale non riuscisse più a riprendersi da quella sbandata e tentasse di imitarne la voce come un giocattolo rotto.

Qui invece ci troviamo di fronte a un progetto artistico tanto lucido quanto spiazzante: rinunciare alla propria voce, quella che ogni scrittore ha, e sostituirla con la voce di un altro scrittore. Tento un paragone che irriterà Trevisan, se le tirate anticlericali che percorrono tutta la sua opera sono anche autobiografiche: il progetto artistico dello scrittore veneto ricorda il servo di Dio che annulla la sua volontà affinché si compia pienamente quella del suo Signore.

Nel suo ultimo libro – come in tutti i suoi libri, del resto – «Il ponte» (Einaudi, 2007), vi sono tracce che sorreggono la mia interpretazione. Propongo un frammento:

(…) io giocavo la mia partita semplicemente mettendo la mia vita nelle mani di Pinocchio, e così, mettendo la mia vita nelle sue mani, ero stato in grado di spingermi là dove, senza di lui, non mi sarei mai spinto, e soprattutto non sarei mai stato in grado di provare quella particolare sensazione, giustamente denominata ebbrezza della velocità, quell’essere presenti a se stessi in ogni momento mentre il resto del mondo ci viene incontro a tutta velocità, quella sensazione di essere più vicini alla realtà delle cose e di essere parte integrante di quella stessa realtà (…)

Se sostituiamo al nome di Pinocchio quello di Thomas Bernhard e alla parola vita la parola scrittura ecco che in queste righe Trevisan racconta la natura più intima del suo stile letterario, i motivi più o meno razionali per i quali ha deciso di annullare la sua voce in quella di Bernhard.

Non è, ripeto, una fissazione infantile: è un progetto coerente e perseguito senza ripensamenti, a partire dal suo esordio con Theoria nel 1997, «Un mondo meraviglioso», una delle sue prove migliori, con quell’incipit

Niente al mondo mi fa più impressione dell’idea di morire in un letto d’ospedale, pensavo entrando in ospedale, scrive Thomas (…)

che rimanda direttamente ad altri celebri incipit bernhardiani. Ad esempio, quello del fondamentale «Estinzione» (Adelphi, 1996, traduzione di Andreina Lavagetto):

Dopo il colloquio col mio allievo Gambetti, col quale mi sono incontrato il ventinove al Pincio, scrive Murau (…)

oppure quello di «Cemento» (SE, 1997, traduzione di Claudio Groff):

Da marzo fino a dicembre, scrive Rudolf (…)

A proposito di questa struttura Luigi Reitani nel suo «Autoritratto dello scrittore come uomo che invecchia» pubblicato in appendice alla sopracitata edizione di «Cemento» sostiene che

Rudolf non può essere confuso con l’autore del libro, inteso come concreta individualità biografica, né si può a rigore identificare nel narratore; ciò che il musicologo scrive in prima persona è presentato infatti come un’informazione, l’unica nel romanzo, che l’invisibile narratore formula nel lapidario inciso “scrive Rudolf”. (…) Radicalizzando si può affermare che il ‘contenuto’ di Cemento è interamente condensato nella frase “Rudolf scrive”. Nel libro non accade null’altro, almeno rispetto a quest’asse temporale.

Questo modello di incipit, cui Bernhard non ha sempre fatto ricorso, è stato invece applicato fedelmente da Trevisan a tutti i romanzi scritti fino ad ora: «Un mondo meraviglioso», «I quindicimila passi» (Einaudi, 2002) e, appunto, quest’ultimo «Il ponte», che ha un sottotitolo, «un crollo», che ancora una volta è un atto di devozione rispetto alle coppie di titolo e sottotitolo utilizzate da Bernhard. Basti pensare a «Estinzione» (il cui sottotitolo è «Uno sfacelo»), a «A colpi d’ascia» («Una irritazione»), a «Il respiro» («Una decisione») e così via. Un’adesione stilistico-formale, dunque, che non si limita a prendere possesso del testo, ma sconfina nel metatesto.

Ma fin qui – e ho volutamente evitato di sottolineare come il protagonista di tutti i romanzi di Trevisan abbia, smaccatamente, lo stesso nome di battesimo di Bernhard – si potrebbe parlare semplicemente di omaggi, seppure reiterati con un’insistenza morbosa. Vi propongo allora un altro passo dall’ultimo romanzo di Trevisan:

(…) In Italia si lamentano tutti in modo comunque insopportabile, ma il modo di lamentarsi in assoluto più insopportabile di tutti è il lamento alla veneta, per così dire, e in particolare il lamento alla vicentina, specialità in cui anche Pinocchio, non appena si era come si dice messo in proprio, era andato via via affinandosi. Nessuno si lamenta in modo così fastidioso quanto l’imprenditore veneto, e vicentino in particolare, che si lamenta sempre e comunque, indipendentemente da come vadano effettivamente le cose. E sempre con quel tono, e quell’atteggiamento, insieme arrogante e servilmente umile, che la lingua, o anche solo la cadenza veneta, e vicentina in particolare, asseconda così bene. Nessuno al mondo si lamenta in modo così fastidioso come i vincentini, penso, e, tra i vicentini, nessuno si lamenta tanto spesso e in modo tanto fastidioso di come si lamentano, sempre e di continuo, i cosiddetti imprenditori vicientini, che sono i campioni riconosciuti del lamento alla vicentina (…)

Bene, signori, questo è Bernhard. Provate a sostituire Vicenza con Vienna, il Veneto con l’Austria, e dite che avete preso questo brano da «Correzione» o da «Antichi maestri». Nessuno si accorgerà della sostituzione. Ecco la parola. Ecco il progetto: sostituirsi a Bernhard.

Sebbene abbia poco senso individuare una copia conforme più conforme di un’altra, si può affermare che questo «Il ponte» sia il più bernhardiano dei romanzi di Trevisan. Almeno in campo artistico, infatti, la forma finisce sempre col diventare sostanza, ed ecco allora che qui l’ossessiva ripetizione delle frasi e dei temi, che anche nell’originale suscita cauto divertimento senza mai degenerare in piena ironia, si concentra in una feroce invettiva contro la propria terra natale: l’Austria per Bernhard, l’Italia per Trevisan.

Un’invettiva, spesso condivisibile, che a volte sfiora toni qualunquistici, ma se ci pensiamo bene il qualunquismo è il fondo di cottura delle migliori pietanze letterarie che Thomas Bernhard ci ha offerto nel corso della sua vita.

Della trama noir che percorre “Il ponte” non voglio parlare. E’ solo un pretesto. E’ nella forma, nel progetto stilistico, il vero valore letterario di questo come degli altri libri di Trevisan. Ma almeno un paio di curiosità voglio ancora segnalarle.

Lungamente evocato, Thomas Bernhard appare a pagina 50 de «Il ponte». Non è una novità, del resto: Bernhard viene citato esplicitamente in quasi tutti i testi narrativi di Trevisan, ma la chicca, qui, è che viene citato per essere immediatamente confutato:

(…) Per farmi capire ancora meglio, ricordai a Hennetmair l’inizio di Estinzione, di Thomas Bernhard, autore che, sia io che Hennetmair, conoscevamo molto bene. Anche Bernhard non fa eccezione, avevo detto a Henntmair, anche lui pensa che la grande virtù dell’italiano sia nella sua leggerezza. Be’, io non la penso affatto così (…)

L’altra curiosità riguarda le fotografie del padre e della madre di Thomas, il protagonista del romanzo, le uniche due foto che ha portato con sé quando ha definitivamente abbandonato l’Italia per ritirarsi a vivere in Germania. Thomas le ha infilate a caso nei libri della sua vastissima biblioteca e, guarda caso, la foto del padre è finita in un libro di Thomas Bernhard e la foto della madre in un libro di Samuel Beckett. Eccoli qui, papà e mamma, Bernhard e Beckett, i due genitori letterari di Trevisan. Beckett infatti è l’altro grande demone che pervade, seppure con origini ed effetti diversi, la sua scrittura.

A dire il vero, mentre l’opera si andava componendo, avevo l’impressione che a parlare non fosse solo Beckett e, nella mia testa, al viso di Beckett si sovrapponeva quello di Bernhard, a quello di Bernhard si sostituiva il volto di Bacon, che a sua volta si trasformava di nuovo in Beckett.

Così mi aveva raccontato Trevisan quando lo avevo intervistato in occasione dell’uscita del suo “Wordstar(s)” (Sironi, 2004), una raccolta di pièce teatrali in cui l’ultima (che ha come sottotitolo «Ritratto dello scrittore come uomo da vecchio» che ricalca il titolo del saggio di Reitani su Bernhard citato in precedenza), mette in scena appunto gli ultimi giorni di vita di Samuel Beckett.

Beckett ritorna spesso nell’opera di Trevisan, più che altro nei testi brevi, ad esempio nel bellissimo «Scritto ritrovato n° 1» contenuto in «Shorts» (Einaudi, 2004), raccolta che contiene anche il racconto «Da chi e da che cosa» in cui il narratore rifiuta un libro di Thomas Bernhard a un amico che glielo chiedeva in prestito e termina così

(…) immobile davanti alla finestra, col Bernhard in mano, continuai a chiedermi chi o che cosa mi avesse impedito di dare il Bernhard a Enrico, quale forza esterna mi avesse fatto pronunciare quel preferisco di no.
Da chi, da che cosa sono dunque posseduto?, mi chiesi ancora aprendo la finestra.

quasi a voler far risalire il legame artistico nei confronti dell’austriaco a forze che attengono all’ultraterreno.

Di nuovo Beckett ne «Il calmante», pubblicato in «Standards vol. I» (Sironi, 2002) che porta lo stesso titolo di una novella di Beckett e che ne costituisce un’originale e molto libera reinterpretazione. Dice Giulio Mozzi nella bandella di «Standards vol. I»

Gli standard sono quei temi classici che tutti i musicisti jazz conoscono e hanno in repertorio. Eseguire uno standard, per un musicista jazz, significa ammettere un debito verso la tradizione e, nel contempo, affermare virtuosisticamente la propria individualità.

Forse è questa la più sintetica spiegazione per una scelta stilistica così estrema, per questi standard eseguiti con una perizia tale da non essere distinguibili dagli originali.

Un pensiero riguardo “Trevisan e Bernhard. Una sostituzione.

  1. Da ammiratore, nel senso stilistico, del citato Thomas Bernhard, mi sento di poter dire, lette le parti citate dell’opera di Trevisan (autore che, fra l’altro, non conoscevo, ma non mi sorprende), che mi sembrano poco ispirate se non proprio brutte. Chiunque abbia letto anche solo un libro di Bernhard potrebbe riconoscere in lui un’imitazione e una banalizzazione estrema. E’ bene credere nell’imitazione, non dico che sia sbagliata, anche per trovare una destinazione propria, però addirittura copiare l’idea del sottotitolo o l’idea di un personaggio che lancia invettive e critiche contro le proprie origini è veramente esagerato.

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